Storie di ordinaria negligenza

Il titolo avrebbe potuto anche essere “Dalle case, alle tende, ai prefabbricati: nel nostro quotidiano, senza più passato, non c’è nessun futuro.” Ecco la narrazione: L’Aquila 6 aprile 2009 ore 3.32, nei letti colti nel sonno genti catapultate dalla forza della natura in strada, case sventrate, famiglie sepolte, urla dal cemento, biciclette dalle ruote storte diventate inutilizzabili per le vie coperte di macerie, di sangue, di quotidianità sventrata. Le urla degli esseri umani impauriti e inermi di fronte al dramma della terra che trema, che chiama a sé.

Inutile raccontare la mia emozione quando dopo un mese dal terremoto sono entrata per la prima volta nella zona rossa, la parte della città evacuata perché pericolosa e pericolante. Le mie immagini parlano da sé. Quello che raccontano, all’inizio, è l’inquietudine delle vite spezzate, di quella quotidianità dilaniata per sempre. Invece le foto realizzate a distanza di un anno e mezzo, quando sono tornata nel 2010 mostrano quel terribile stupore nel constatare che oltre la città deserta niente era stato ancora ricostruito, nessuno aveva mantenuto le promesse fatte, non un politico, non un membro del g8 di cui i giornali avevano riportato persino le ricette date in pasto alle first ladies.

Allora per il mio senso sociale, per i valori che mi guidano nel reportage il titolo non poteva che essere “Storie di ordinaria negligenza”. Dal vocabolario: “Negligenza – omesso compimento di un’azione doverosa”, dal latino negligere  nec legere, non raccogliere”. Doveroso raccogliere la sfida di costruire in una città ad alto rischio di terremoti con strutture antisismiche edifici come abitazioni, case per gli studenti, scuole. Doveroso raccogliere il desiderio dei cittadini di rimanere a vivere nella propria città ricostruendo dopo il terremoto là dove si voleva continuare ad abitare. Doveroso raccogliere la cultura di una città antica che non chiedeva prefabbricati come nuovi monumenti alla negligenza politica che non si cura dei bisogni reali dei cittadini.

         Il reportage è stato realizzato nel corso di due anni (tra maggio 2009 e maggio 2011) durante il quale mi sono recata in Abruzzo (L’Aquila e dintorni) diverse volte per documentare il cambiamento che un dramma così grande porta con sè.

Mentre il mio sguardo la prima volta è rimasto colpito dal passaggio del sisma, nel mio secondo viaggio ho colto il silenzio di un paesaggio spettrale disabitato, la totale mancanza di un tentativo di ricostruzione.

Dai racconti delle persone ho raccolto che la notte stessa del terremoto già esisteva un accordo di speculazione sulla ricostruzione, tanto che c’è un’ intercettazione telefonica in cui due imprenditori edili se la ridono all’idea degli affari che faranno: “…non è che c’è un terremoto al giorno… io ridevo stamattina alle 3.32 dentro il letto”. Forse il reportage può anche intitolarsi “Alle 3.32 noi non ridevamo”.