“E se dovessimo incontrare gli Oroh?”, aveva chiesto Richy mentre ci apprestavamo a salire sul tetto della Lancia per rientrare alla Maison, dopo una serata trascorsa piacevolmente a bere birra in una buvette. “Gli Oroh?”, pensai. “Chi saranno mai questi Oroh? Qualche gruppo etnico del Benin di cui ancora ignoro l’esistenza?”. Ma fu giusto un pensiero fugace. L’autista ingranò la marcia e iniziò una folle corsa per le stradine deserte di Ouidah, incurante del fatto che ben quattro passeggeri non si trovavano all’interno del veicolo, bensì sul tetto.
In un batter d’occhio arrivammo alla Maison. Richy fu il primo ad accorgersi che il portone d’ingresso era chiuso, e che all’esterno non c’era anima viva. Rimasi colpita dall’assenza del Vecchio, che soleva trascorrere le notti davanti alle mura di cinta della casa.
Scesi e mi precipitai al portone per cercare di capire cosa stesse accadendo. Gli altri mi raggiunsero immediatamente, e iniziammo a chiamare a gran voce Sonia, la governante. Dopo pochi istanti il portone si aprì, giusto il necessario per lasciar intravedere la donna con un corteo di ragazzini alle spalle stretti l’uno all’altro. “Fate in fretta”, ci intimò, “ci sono gli Oroh!!!”
“Ancora gli Oroh? Ma che saranno mai?”. Il suo sguardo appariva talmente turbato che non mi sembrò il caso di perdermi in chiacchiere, e mi infilai nel portone semiaperto, che si richiuse con un tonfo non appena l’ultimo di noi mise piede nel cortile. Mi guardai attorno nel tentativo di cogliere anche il più misero segno che potesse illuminarmi, svelandomi chi o cosa avesse causato tutta quell’agitazione. Ma la confusione era tale che dovetti abbandonare il mio proposito, e insieme agli altri salii le scale per andare a fumare l’ultima sigaretta in terrazza e perdermi sotto il cielo stellato irradiato dalla luna piena.
Eravamo in piedi, affacciati al cornicione, quando udimmo un sibilo. Sembrava il suono di una frusta che gira a vuoto nell’aria. Linda e Simona si sporsero impulsivamente in avanti per vedere cosa stava accadendo. Ma la voce di Cetto le bloccò di colpo. “Ragazzi, sono gli Oroh… Abbassatevi e state zitti, non devono né vederci né sentirci, altrimenti son problemi!!!”
Ormai non potevo più trattenere la mia curiosità, e afferrai Cetto per un braccio. “Ma si può sapere di cosa stai parlando?”, lo apostrofai con i miei soliti toni acuti. Cetto mi mise una mano sulla bocca e si portò un dito alle labbra, facendoci segno di tacere e invitandoci ad allontanarci dal cornicione.
Seguirono parecchi minuti di silenzio assoluto. Linda stava per accendersi una sigaretta quando udimmo un nuovo sibilo. Ancora una volta Cetto ci intimò di tacere, senza darci nessuna spiegazione.
Passammo un buon quarto d’ora in questo modo, accovacciati l’uno accanto all’altro sul materasso, quasi senza respirare. L’aria era umida e il caldo soffocante, ma nessuno di noi sembrava farci caso. Eravamo tesi come corde di violino, senza nemmeno sapere il perché. Non si sentiva volare una mosca. L’atmosfera stava diventando opprimente.
Finalmente, Cetto ruppe il silenzio. “Non so dirvi con esattezza di cosa si tratti. Ho vissuto otto mesi a Ouidah e ogni volta che si pronuncia la parola Oroh la gente si oscura e cambia discorso, paralizzata dal terrore. Sembra che siano dei vodù che hanno il diritto di uscire tre notti di seguito, e quando escono tutti si rintanano nelle loro case, fino a quando il sibilo infernale non cessa definitivamente. Si dice che quando incontri un Oroh sei segnato. Se non sei un iniziato al vodù ti costringono a diventarlo, se sei un yovo ti derubano di tutto. E in entrambi i casi, non vanno per il sottile: sembra che le buone maniere non gliele abbiano insegnate.”. “Il solito modo di Cetto di affrontare le cose, sdrammatizzandole”, pensai un istante prima dell’inizio di una nuova sequela di sibili, provenienti dalle vicinanze della Maison. Ci dibattevamo tutti tra il desiderio di spingerci a vedere e l’ansia paralizzante di cui eravamo preda. In un sussurro, Linda raccontò che l’anno prima una ragazza, sopraffatta dalla curiosità e incurante degli ammonimenti di Justine, si era affacciata al balcone ed era riuscita a vederli. Ma anche loro, gli Oroh, l’avevano vista, e avevano assediato la casa per tre giorni e tre notti. Tre giorni e tre notti di panico e angoscia ininterrotte.
Credo che nessuno di noi riuscisse a capire fino in fondo il terrore della gente di Ouidah, considerandolo semplicemente il frutto di una credenza popolare perpetuatasi nel tempo. Ciononostante, nessuno di noi si sentiva completamente al sicuro. Eravamo tutti sdraiati sullo stesso materasso, senza avere nemmeno l’ardire di accendere una sigaretta o di tossire. Le nostre parole erano sussurri, iniziati quasi per gioco e trasformatisi poi nell’esternazione del nostro stato d’animo.
Un’inquietudine irrazionale che si scontrava col desiderio razionale di trovare un senso a quanto stavamo vivendo.
E sempre sussurrando, iniziammo a tempestare Cetto di domande, a cui lui non riusciva a rispondere. “Ragazzi, vi ho già detto tutto ciò che so. Nessuno vi dirà niente sugli Oroh. È un argomento tabù a Ouidah.”
Linda avanzò senza troppa convinzione l’ipotesi che si trattasse di delinquenti che si nutrivano dell’ignoranza popolare, e per tutta risposta si levò una nuova ondata di sibili che ci azzittì all’istante.
Ormai eravamo tutti in fibrillazione, incapaci di gestire quel pizzico di dubbio che si era lentamente insinuato in noi. E tra un sibilo e un sussurro, tirammo le 4 del mattino, formulando congetture che noi stessi ci prendevamo la briga di smontare per arrenderci infine all’evidenza: non si può capire ciò che non si conosce, e non si può spiegare ciò che non si capisce. Le nostre congetture si scontravano infatti con il muro dell’ignoranza – la nostra ignoranza sul vodù – e con una diversità culturale di fondo, difficile da superare. Siamo soliti ritenere privo di senso tutto ciò a cui non riusciamo a dare una risposta. Ma forse siamo noi che non riusciamo a cogliere quel senso, ed è proprio quest’incapacità a porci tutti sullo stesso piano, uguali pur nella diversità.
Stava ormai albeggiando quando, esausti, turbati e pieni di dubbi ci ritirammo nelle nostre stanze, avendo l’accortezza di chiudere bene le porte per lasciare fuori gli Oroh.