Mio padre

Io e mio padre non siamo mai stati molto vicini. L’ho sempre rimproverato di non avermi amato abbastanza o, almeno, di non averlo mai dimostrato.

Nel corso della nostra vita insieme ci siamo visti poco e parlati ancora meno, ognuno chiuso nella propria personale incapacità di dimostrarsi affetto.

Molto riservato e poco generoso nel manifestare qualunque tipo di emozione, a volte, riusciva a smentire completamente la sua indole, mostrandosi incline al dialogo, all’ascolto e alla condivisione. L’ immagine che avevo e che ho di lui differiva e differisce tuttora completamente da quella degli altri.

La sua reale o apparente distanza affettiva e la sua estrema chiusura emotiva se, da un lato mi hanno profondamente segnato, dall’altra, credo, abbiano preservato, in un modo che non saprei spiegare in poche righe, sia me che lui, almeno da un certo punto in poi. Ovviamente ogni medaglia ha il suo risvolto!

Non è mai stato di peso, non ha mai chiesto nulla, non è mai stato depresso, non ha mai chiesto il mio aiuto o la mia presenza, salvo casi del tutto eccezionali. E’ stato autonomo ed ha vissuto da solo fino all’età di 92 anni.

Dalla fine di giugno 2014, nonostante i successivi viaggi da un ospedale all’altro, anche se con un breve intervallo nella sua casa, e sebbene immobilizzato in un letto d’ospedale e sottoposto ad ogni  sorta di cura, mai un  lamento,  mai un cedimento, mai una manifestazione di paura, solo qualche richiesta a volte consona a volte capricciosa.

Ecco, sì, a volte diventava capriccioso come se non fosse pienamente consapevole della sua condizione  pretendendo, infatti, di fare completamente di testa sua come se il suo stato di estrema fragilità non lo riguardasse minimamente.  Forse, semplicemente aveva paura di prenderne completamente coscienza.

Tante volte avrei voluto chiedergli cosa pensasse o  sentisse, se avesse paura, ma poi…..troppa intimità!  Per noi era qualcosa di sconosciuto!

Confliggere, invece, è sempre stato il nostro unico modo di comunicare e  affrontare i problemi, anche i più banali. Non è mai esistito un  parlare di noi, del nostro sentire, delle  nostre difficoltà, delle nostre vite. Non ci siamo quasi mai fatti domande. Mai un vero dialogo!

Nemmeno prima del suo andarsene siamo riusciti a trascendere e trasgredire le nostre antiche regole relazionali. Siamo stati capaci di discutere fino quasi alla fine. Pensava mi fossi intestardita nel non volerlo portare a casa ma, come fargli capire che a casa nelle sue condizioni non era più gestibile? Alcune volte si è persino  arrabbiato perché era convinto  gli negassi, per mia arbitraria decisione, un po’ di cibo extra.

Avrà pensato che volessi scaricarlo, abbandonandolo in un ospedale…. che me ne fregassi….Eppure, credo di aver fatto tutto quanto fosse nelle mie possibilità e capacità……

Gli antichi dolori non si spengono mai, basta un nulla e tutto torna ad incendiarsi come fosse la prima volta!

Negli ultimi due mesi e mezzo, tutta la sua vita si è concentrata sui suoi ricordi, sulla speranza di avere un altro po’ di tempo da vivere e nel contemporaneo credere che tutte quelle torture mediche non lo avrebbero portato da nessuna parte, sul  non ricordarsi più della sua casa, sul mio aiutarlo con il pensiero ad andare di stanza in stanza, sul suo parlare della sua fame, nel chiedere di avere, di nascosto dai medici, un po’ di quel formaggio che gli piaceva tanto ma che era completamente vietato per via del diabete, sul suo chiacchierare con piacere con un vicino di letto con cui condividere tanti ricordi del suo passato,  sul suo leggere il giornale o ascoltare la radio con grandi cuffie sulle orecchie come quei ragazzi che si vedono per la strada o sugli autobus.

L’ho visto spegnersi lentamente ma non ho mai pensato  potesse andarsene così in fretta. Ho sempre immaginato questa figura come eterna, come la pagina di un libro che non può non appartenere che a quel libro per sempre perché ne è una componente essenziale.

Due giorni prima del suo ultimo viaggio non è più riuscito né a parlare né a scrivere in modo comprensibile.

“Consono al suo stato” hanno detto i medici.

Il 10 settembre, nonostante le sue difficoltà articolatorie mi ha raccontato un sogno “ Stanotte ho sentito la presenza di una donna vicino a me che stava appoggiata alle sbarre del  mio letto come ora tu e Petruzza”.

Appena lasciato l’ospedale Petruzza mi  ha raccontato la storia di suo zio che, come mio padre, aveva fatto più o meno lo stesso sogno morendo di lì a poco “ Io non credo a queste cose” mi sono detta, cercando di non pensarci più!

Nel suo ennesimo viaggio da una clinica all’altra, la mattina dell’11 settembre lo rivedo alle 10 in punto   nella stanza dell’accettazione medica , sonnecchiante e un po’ infreddolito.

L’ho svegliato e siamo riusciti a parlare un pò anche se con grande difficoltà ne ho compreso le parole.

Era perfettamente lucido, mi  ha detto di avere fame, che avrebbe mangiato volentieri un pezzo di pane e alla fine ha pure dissertato  sulla scarsa qualità e quantità di cibo in cliniche ed ospedali.

L’ho lasciato con i medici ancora lucido e collaborativo, benchè forse un po’ stremato, per permettere loro di concludere l’iter burocratico necessario per l’accettazione. Mi sono allontanata forse 10 minuti  quando sono venuti a chiamarmi. “Cosa sarà successo, cosa vorranno chiedermi?” Al suo andarsene non avevo minimamente pensato.

Invece, se ne era andato, silenziosamente, nel sonno.

Sono rimasta quasi senza parole. Era tutto finito, così, improvvisamente.

Ma non ho avuto dubbi.  Era finalmente libero dal suo lungo viaggio durato 93 anni.

Sono serena perché non si è accorto di nulla e non ha sofferto di alcun dolore fisico, ma  rimpiango tre cose, la prima, di non essere riusciti a dirci nemmeno un “ti voglio bene”, la seconda, di non avergli fatto la foto con le cuffie sulle orecchie come un buffo e tenero teenager di 93 anni e la terza, di non avergli dato tutto il formaggio e il pane che aveva desiderato e chiesto tante volte.

Ciao papà.