Viaggio a Kingouè

Repubblica del Congo.

Kingouè è un villaggio di circa 3000 abitanti situato a 400 km da Pointe-Noire.

Arrivo a Pointe-Noire dopo circa 13 ore di volo.

Ad accogliermi ci sono Jenny, la presidentessa dell’Associazione Casa del Cuore Amici del Congo, una delle pochissime che operano in questo paese, e il suo piccolo e simpaticissimo figlioccio, Louange, dalla storia molto triste.

L’indomani, dopo una notte di meritato riposo, partiamo tutti insieme alla volta del Villaggio e arriviamo a Kingouè verso le sette di sera.

Avvolti in un buio costellato di stelle scintillanti, veniamo accolti a casa di papà Martin. I bambini urlano festanti e contenti per l’arrivo di Louange, sono molto eccitati per la nostra presenza: Per loro siamo una bella novità, per questo tutti allegri, strillano come degli indemoniati.

Martin è il papà di Ghislain, l’amico prete congolese con cui avevo preso contatti in Italia.

I primi giorni, è duro adattarsi. Non ci sono né acqua, né servizi igienici, almeno come li intendiamo noi occidentali, ma, dopo un breve momento di sconforto, le difficoltà ci appaiono affrontabili e  anche superabili.

Il progetto di Ghislain era che io documenti dal punto di vista fotografico la vita di Kingouè: seguirò in particolare una famiglia durante le attività quotidiane e, immortalerò tutto quello che, ai miei occhi, testimonia la vita del Villaggio.

Kingouè è un luogo immerso in una vegetazione rigogliosa, ai margini della foresta pluviale: Lo sguardo spazia senza trovare limite, perdendosi in un infinito ricco di palme e di alberi di mango. Un senso di grande libertà e grandiosità invade la mente e il cuore, riempendo i polmoni di un’aria nuova, libera da ogni confine.

La vita nel Villaggio è molto dura. Si lavora dall’alba al tramonto senza sosta, nei campi, al mercato e a casa: le donne, oltre a tutto il lavoro già svolto fuori, si prendono cura dei figli, e al tempo stesso cucinano grandi quantità di manioca, cibo base dell’Africa.

Le risorse del villaggio si basano quasi esclusivamente sull’agricoltura; ci sono coltivazioni di mais, manioca, ananas, arachidi. Unica altra possibilità di sopravvivenza è l’allevamento del bestiame: mucche, pecore, capre e maiali.

Non c’è luce, né acqua corrente, solo quella dei pozzi o delle fonti, non ci sono mezzi di comunicazione né d’informazione, non ci sono strade asfaltate, né ospedali o ambulatori, che siano degni di questo nome.

Nel Villaggio operano un medico e un infermiere specializzato che cercano, per quanto possibile, di curare chi ne ha bisogno, anche gratis, se necessario.

I mezzi a disposizione, però, sono scarsi quasi nulli. Manca tutto, dalla strumentazione ai medicinali.

Le malattie tradizionalmente si curavano e, ancora oggi accade, con la curatrice, che cerca di guarire il corpo insieme all’anima e si ispira a motivi religiosi, mutuati dal cattolicesimo, oppure si ricorre allo stregone, che invece usa amuleti, legge i segni e fa divinazioni.

Rimanere in salute è una sorta di privilegio e di fortuna. Il più piccolo problema, se trascurato nel tempo e non curato può alla fine, trasformarsi in una malattia fatale.

Inoltre la povertà, in cui versa la maggior parte della popolazione, impedisce di andare in città per ricevere maggiore e migliore assistenza.

I trasporti e le cure, infatti, costano moltissimo se rapportate a quanto una donna può permettersi di spendere ogni giorno, circa € 1,5.

Non tutti i giovani vanno a scuola. Chi perché non se lo può permettere, chi perché la famiglia non se ne cura, chi perché costretto a lavorare. Alcuni devono percorrere a piedi circa due ore di strada per ritrovarsi poi in classi di 60, 70 allievi.

L’istruzione non si può dire delle migliori. I ragazzi di 15/16 anni hanno competenze scarse e non adeguate all’età, ma sono molto intelligenti e desiderosi di apprendere.

Nel conoscere le famiglie più povere e gli ammalati mi rendo conto in prima persona di cosa significhi qui povertà: mancanza di tutto. L’indigenza è davvero estrema.

L’associazione Amici del Congo fa molto per questa gente, assistendola dal punto di vista alimentare che da quello sanitario: distribuiscono riso, forniscono  medicinali o denaro per recarsi in città a ricevere cure adeguate.

Inoltre l’Associazione ha realizzato 3 fonti d’acqua, in diverse zone del Villaggio, per favorire una maggiore igiene e rendere maggiormente fruibile questa importante fonte di vita.

Il lavoro che Jenny e Ghislain svolgono al servizio dei più bisognosi è importantissimo e di vitale importanza. Stanno anche realizzando un centro d’accoglienza per i volontari che vorranno in futuro impegnarsi in quel luogo e stanno costruendo per la popolazione locale, un asilo, un orfanotrofio, una scuola e un centro di formazione per i ragazzi più grandi.

Tra tutti, il centro di formazione, rappresenta un punto fondamentale e di grande valore sociale, visto che la maggior parte dei ragazzi passa il tempo seduta in bar fatiscenti ad ingurgitare litri di birra e vino da palma. Unico risultato: ubriachezza, patologie e risse.

Qui, come in altre parti del mondo, gli adulti sembrano ripetere le stesse cose: “I ragazzi di oggi non hanno voglia di fare nulla”.

Per controbilanciare la constatazione, quasi imbarazzante, di una realtà così drammatica, un giorno chiedo a Ghislain quali siano le cose più belle e positive di Kingouè. Mi risponde: “la solidarietà e la generosità”

Come non credergli, visto che tutti i giorni arrivano persone a casa di papà Martin a portarmi doni: mango, ananas, manioca, banane, e persino galli e galline vive. Tutti vogliono salutarmi e scambiare qualche parola, anche se in un francese stentato.

Non mancano momenti commoventi e di grande tenerezza.

La sera prima di partire porto i miei saluti alla famiglia, che ho documentato.

Mi ringraziano profondamente, dicendosi orgogliosi di essere stati scelti tra le tante famiglie del villaggio e di essersi sentiti onorati che una occidentale avesse partecipato alla loro vita quotidiana seguendoli persino nei campi fangosi. La loro semplicità di sentimenti mi commuove profondamente. E io che pensavo di aver stravolto, con la mia presenza, la loro tranquilla quotidianità!

E’ davvero toccante sperimentare come la loro felicità sia fatta veramente di piccole cose.

Anche i tanti bambini che, nei giorni della mia permanenza, hanno riempito di urla, canzoni e balli la casa di papà Martin mi regalano  anche oggi emozioni straordinarie. All’inizio della mia permanenza, erano incuriositi ma schivi; i più mi guardavano e ridevano solo. Pian piano hanno preso coraggio e, superando la propria timidezza in pochi giorni sono diventati avidi di attenzioni: del nostro giocare insieme, del mio insegnar loro a contare in italiano e in francese, o semplicemente a dire “Ciao come stai”? “Bene”.

I bambini non  vengono tanto curati dai genitori, potrei dire che vengono quasi abbandonati a se stessi, sporchi, laceri, spesso anche molto affamati, di cibo e di affetto, mi toccano, mi prendono le mani, mi pettinano, mi invitano a ballare e a raccontare o leggere loro delle storie, mi salgono in braccio e mi baciano e ridono, divertendosi con poco. La loro emotività così desiderosa di cure, la semplicità e l’immediatezza del loro essere bambini, il loro non avere nulla e non pretendere nulla, mi fanno provare il desiderio, purtroppo irrealizzabile, di portarli tutti con me.

Louange poi mi riempie il cuore di grande tenerezza per la sua triste storia e per la sua simpatia.

Sua madre muore di fame qualche anno fa e, visto lo stato di malnutrizione avanzata del bambino e gli scarsi mezzi a disposizione della famiglia, decidono di seppellirlo vivo insieme alla mamma.

Fortunatamente Papà Martin si oppone alla brutalità di tale gesto e, così facendo, regala a Louange l’opportunità di nascere per la seconda volta. Ora lui vive a Pointe-Noire con Jenny, che se ne prende amorevolmente cura.

A questo punto del viaggio era naturale riflettere su come sia importante acquisire sempre più la consapevolezza di essere cittadini globali e ipotizzare una redistribuzione del reddito e della ricchezza mondiale in modo più “equo e solidale”, abbattendo la grande barriera dello sfruttamento economico delle risorse dei paesi poveri per il profitto a tutti i costi di pochi.

La sensazione che anche un piccolo cambiamento possa partire dall’atteggiamento di ciascuno di noi mi si è insediata dentro. Per questo, una volta rientrata ho deciso di dedicarmi a questa pubblicazione col fine di il  devolvere il ricavato all’acquisto di un Pick up, che permetta sia gli spostamento all’interno del Villaggio che, all’occorrenza, il trasporto delle persone malate da Kingouè alla Città.

Per quanto mi riguarda, oltre a queste foto rimane l’esperienza che ho vissuto, che non dimenticherò e che mi porterà sicuramente di nuovo in questi luoghi.

Può sembrare una piccola azione, nello stesso tempo è un inizio, è il mio primo passo per contribuire ad un cambiamento possibile. Spero che questo abbia significato anche per voi.